Da troppo tempo sappiamo quanto sia urgente modificare le politiche e i comportamenti che hanno causato impatti profondi, e talvolta irreversibili, sulle risorse ambientali. Lo stato delle risorse del mare e in particolare del Mediterraneo, ci impone interventi trasversali, che devono andare oltre le “politiche dell’ambiente”, troppo spesso una foglia di fico che copre vergogne non più tollerabili.
La complessità degli interventi necessari è innegabile, almeno quanto il peso dei “poteri” che stanno ritardando scelte sempre più urgenti. La “questione ambientale” non può più essere affrontata separandola dal complesso delle politiche economiche, sociali e sanitarie. Se ci sono soggetti che non considerano rilevanti la salute dei cittadini e la tutela dell’ambiente (non ci illudiamo), potranno risultare più convincenti le evidenze degli impatti economici, sanitari e sociali che stiamo registrando dopo decenni di politiche suicide: il caso dell’ILVA di Taranto è un esempio tra i molti possibili nel Paese.
Per tornare al mare, il “boom” delle trivellazioni offshore promosso dal “Governo Tecnico” è la spia di un rapporto malato: si consegnano nelle mani di pochi soggetti le risorse naturali, invece di affrontare temi che sono assolutamente trasversali. Stiamo parlando dell’emergenza climatica, della nostra (in)dipendenza energetica (le migliori stime ci dicono che tutto il petrolio offshore del mare non basterebbe a soddisfare il nostro fabbisogno nemmeno per due mesi). A questo dobbiamo aggiungere gli impatti socio-sanitari e le minacce alle risorse naturali (comprese quelle del mare) con le loro implicazioni socio-economiche, a cominciare da settori importanti quali la pesca e il turismo. La cosa più grottesca è che tutto ciò è spacciato come un progetto “riformista”: mentre è solo il banale proposito di grattare il fondo del barile (per estrarre le ultime, poche, gocce di petrolio) mettendo tra le mani dei soliti noti il destino del nostro mare.
Per intenderci, sappiamo tutti che dietro le “compagnie di ventura” che presentano le richieste di esplorazione ci sono ovviamente le grandi compagnie petrolifere: ad esempio, il rapporto tra Northern Petroleum, che adesso vuole una concessione di oltre 1.300 kmq nello Stretto di Sicilia, e la Shell è noto. Non è certo la prima volta che a fronte di valutazioni economiche e “sviluppiste” (o presunte tali) la politica considera con fastidio la tutela delle comunità locali, della loro cultura, dei loro interessi e delle risorse naturali. È un atteggiamento che ha fatto si che le politiche ambientali non siano mai davvero entrate a far parte del “sistema”, mantenendo invece un ruolo relativo, di nicchia. Oppure, se si preferisce, di “foglia di fico” che copre luride vergogne. In mare, un territorio dove monitoraggio, controllo e presenza della società civile, sono ancora più complicati questo atteggiamento è ancora più marcato. Un ovvio esempio delle contraddizioni delle politiche sul mare è quello che affianca alla creazione di Aree Marie Protette (AMP) e di altri siti di tutela, come i Siti d’Importanza Comunitaria (SIC), la “promozione” di concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi.
Ad esempio, alcune delle aree di ricerca di idrocarburi sono prossime all’AMP delle Isole Egadi, e la recente “megaconcessione” richiesta dalla Northen Petroleum al largo delle coste agrigentine dista pochi chilometri (da 5 a 30) da sei SIC. In particolare, le AMP sono istituite dal Governo centrale, hanno valenza nazionale e esercitano prerogative di tutela dell’ambiente. È assurdo che lo stesso governo che le ha create per fini di tutela le metta poi in pericolo con le trivelle. Esistono tuttavia segnali, anche istituzionali, che dicono chiaramente che questa rotta va cambiata e che la Regione Siciliana, e l’Italia intera, può uscire da questa spirale pericolosa.
Ad esempio, la “Direttiva sulla Strategia Marina” (Dir.2008/56) stabilisce che gli Stati Membri “devono elaborare le proprie strategie, in collaborazione con gli Stati membri e gli Stati terzi, per il raggiungimento di un buono stato ecologico nelle acque marine di cui sono responsabili” e che per far ciò, “devono anzitutto valutare lo stato ecologico delle loro acque e l’impatto delle attività umane. Tale valutazione deve includere:
– un’analisi delle caratteristiche essenziali di tali acque (caratteristiche fisiche e chimiche, tipi di habitat, popolazioni animali e vegetali, ecc.);
– un’analisi degli impatti e delle pressioni principali, dovuti in particolare alle attività umane che incidono sulle caratteristiche di tali acque (contaminazione causata da prodotti tossici, eutrofizzazione, soffocamento o ostruzione degli habitat dovuti a costruzioni, introduzione di specie non indigene, danni fisici causati dalle ancore delle imbarcazioni, ecc.);
– un’analisi socioeconomica dell’utilizzo di queste acque e dei costi del degrado dell’ambiente marino”.
La “Direttiva sulla Strategia Marina” è oggi nella sua fase iniziale di applicazione e la Regione Siciliana è capofila per l’applicazione della strategia nella sub-area dello Stretto di Sicilia/Mar Ionio. Com’è evidente, la Strategia Marina prevede un’integrazione tra politiche produttive e ambiente, e non la scontata prevaricazione delle prime a danno degli interessi collettivi. Ancora, lo scorso 12 marzo 2013 la Commissione Europea ha presentato una Proposta per una Direttiva che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo e la gestione integrata delle zone costiere. In tale documento la Commissione Europea afferma che “la proposta è volta principalmente a promuovere la crescita sostenibile delle attività marittime e costiere e l’uso sostenibile delle risorse costiere e marine tramite la creazione di un quadro che consenta di attuare efficacemente la pianificazione dello spazio marittimo nelle acque dell’UE e la gestione integrata delle coste nelle zone costiere degli Stati membri. L’uso crescente e non coordinato di zone costiere e marittime porta alla concorrenza per lo spazio marittimo e costiero e a uno sfruttamento inefficiente e non sostenibile delle risorse marine e costiere.
”È ovvio che per usare i termini della Commissione Europea, le trivellazioni offshore sono in “concorrenza” con attività quali il turismo e la pesca: bisogna decidere cosa vogliamo e cosa rifiutiamo. In altre parole, bisogna scegliere. Greenpeace ritiene che per scongiurare la minaccia delle ricerche di idrocarburi offshore nello Stretto di Sicilia e per ridare una speranza al nostro mare, sia necessario partire dalla crisi delle risorse del mare e dalle potenzialità che esse hanno e su questo impostare politiche multisettoriali, che facciano del mare il “petrolio” dello sviluppo dell’economia della più grande isola del Mediterraneo.
Decine di amministratori, politici, personalità, migliaia di cittadini e le principali associazioni della pesca, aderendo all’appello lanciato da Greenpeace la scorsa estate, hanno detto a gran voce che le trivelle non sono compatibili con l’interesse generale dei cittadini (si badi bene: non solo dei cittadini siciliani!). La relazione tra la “questione trivelle” e la “questione energia” è ovvia. Fino a quando quel petrolio avrà un qualche valore (che aumenta con la diminuzione delle riserve) ci sarà sempre qualcuno che cercherà di estrarlo. La soluzione è che del petrolio, a poco a poco, dovremo imparare a fare a meno, sia perché sta finendo sia perché il consumo di combustibili fossili sta alterando il clima con impatti che sono già all’ordine del giorno.
Coldiretti Sicilia ha aderito all’appello contro le trivelle di Greenpeace, ed ha stimato solo per il comparto agricolo in Italia danni per 3 miliardi di euro lo scorso anno, a causa di siccità, alluvioni e simili. L’allarme sull’impatto del cambiamento climatico sulla produttività agricola nell’area del Mediterraneo è stato ormai lanciato. Tra l’altro il cambiamento climatico già colpisce, lontano dall’attenzione del pubblico e dei media, il mar Mediterraneo e molti esperti suggeriscono che possa influire sulla produttività dei nostri mari.
Per fermare le trivelle dobbiamo promuovere un uso efficiente dell’energia e lo sviluppo delle fonti rinnovabili. La Regione Siciliana può immediatamente adottare una normativa a difesa del proprio paesaggio (costiero e non) per difendersi (anche) dalla minaccia delle trivelle in mare. Tutte le Regioni (non solo la Sicilia) possono legittimamente pretendere che il processo di autorizzazione delle trivellazioni in mare si conformi all’esigenza di una “intesa forte”, vincolata in altre parole all’intesa concorrente tra Stato e Regioni.
Leggi il rapporto Un Piano Blu per il mare di Sicilia promosso da Greenpeace.