Da anni l’Italia vive una profonda crisi della politica che ha creato indignazione nella società, allontanando i cittadini dalle istituzioni. Ho deciso di candidarmi per senso di responsabilità, perché non basta lamentarsi per migliorare le cose.
Perché questo Paese non ha più tempo da perdere. Ha bisogno di un cambiamento radicale, a cominciare dai rappresentanti in Parlamento. Sono convinta che l’unico modo per ridare ai cittadini fiducia nella politica e restituire credibilità all’Italia sia puntare sul merito e sull’onestà.
Per oltre venti anni mi sono occupata di temi cruciali del nostro tempo: le crisi umanitarie, le migrazioni, la convivenza civile, i diritti. Un’ esperienza che oggi ho deciso di mettere a disposizione del mio Paese. Laura Boldrini
Laura Boldrini, nata nelle Marche, ha 48 anni. È stata eletta presidente della Camera della 17esima legislatura alla quarta votazione con 327 voti su 618 votanti (i voti della coalizione di centrosinistra sono 340). Era stata candidata all’ultimo minuto dal Pd. Dopo la laurea in Legge a Roma ha lavorato in Rai. La sua carriera in campo umanitario è cominciata nel 1989, alla Fao, dove si è occupata di produzione video e radio. Dal 1993 al 1998 è stata portavoce per l’Italia del Programma alimentare mondiale (Pam), con missioni all’estero, dai Balcani all’Irak. Dal 1998 è la portavoce in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), organismo dell’Onu che conta 50 milioni di rifugiati assistiti, seimila impiegati e 278 uffici in 111 paesi, oltre a due Nobel per la Pace presi nel 1954 e nel 1981.Nel 1993 è nata Anastasia, sua figlia, frutto di un matrimonio poi finito, ora al terzo anno di Liceo classico. Da due anni al fianco di Laura c è Vittorio: «Con lui condivido interessi e impegno». Da bambina, quando Laura partiva, Anastasia preparava una valigetta di giochi e vestiti e la affidava alla madre perché la consegnasse ai bambini di quel Paese. «La maternità ha tirato fuori la parte migliore di me, mi ha resa più sensibile. Non guardo più ai bambini come a dei piccoli adulti ma come a vite da proteggere». Scrive per diverse testate e tiene un blog su Repubblica.it e su http://www.huffingtonpost.it/laura-boldrini.
Il percorso di Laura Boldrini inizia dopo la maturità in un’azienda di riso in Venezuela, ed è costellato di riconoscimenti; ultimo quello di “Italiano dell’anno” attribuitole da Famiglia Cristiana nel 2009 “per il costante impegno, svolto con umanità ed equilibrio, a favore di migranti, rifugiati e richiedenti asilo.” Medaglia ufficiale della Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna nel 1999, Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana nel 2004, anno in cui riceve anche il Premio Elsa Morante “alla figura femminile internazionale”, sono riconoscimenti che, come altri ricevuti, sottolineano il suo impegno e la sua passione nell’essere portavoce “dei beneficiari”, di parlare “per nome e per conto di chi non può”.
Laura è cresciuta nelle campagne vicino a Jesi (Ancona). «Io e i miei fratelli andavamo alla scuola rurale, vivevamo in un mondo chiuso, ovattato. La voglia di partire è nata lì, sono la più grande di cinque figli, due femmine e tre maschi, nati nell’arco di otto anni. Mia madre ci ha allevati lavorando: era insegnante di Arte, poi ha fatto l’antiquaria. Nella mia famiglia sono tutti artisti, tranne me e mio fratello Ugo: noi siamo i pragmatici di casa».
E poi il padre avvocato, riservato, austero, amante del latino e del greco, tradizionalista, molto religioso. «Mia madre organizzava le feste; lui non glielo impediva, semplicemente non partecipava». Diversi e complementari, i suoi genitori hanno trovato un equilibrio: «Quest’anno festeggiano le nozze d’oro».
Con suo padre Laura ha sempre combattuto. «I divieti per lui non si discutevano. Mia madre cercava di conciliare. Io, che ero sempre pronta a fare battaglie sui princìpi, avrei voluto che fosse più combattiva».
Dal padre Laura ha ereditato tenacia e disciplina. Il tempo e il lavoro all’Onu, poi, le hanno insegnato a mediare. Ma lo spirito battagliero è rimasto intatto. Non tutto si può negoziare: quando è in gioco la vita umana non si scende a compromessi.
Una grande scuola di vita è stata l’esperienza di scout, nella parrocchia jesina di don Attilio: «Lì ho imparato la vita nel gruppo, l’amore per la natura, il rispetto dei più deboli, lo spirito del servizio».
A vent’anni il primo viaggio: in Venezuela, tra i campesinos raccoglitori di riso. Poi rotta verso New York, attraverso il Centroamerica, tra tante difficoltà, ma con la determinazione di chi vuole cavarsela da sola. «Quel viaggio mi ha fatto capire che il mondo non è solo dove si vive, ho preso coscienza della diversità». Dopo quell’estate, per gli anni universitari, sei mesi a studiare e dare esami, gli altri sei a viaggiare.
Nel 1998 è cominciato l’impegno per i rifugiati: i disperati del mare, in fuga da guerre e persecuzioni, senz altra via di scampo. Ma alle tragedie del mondo non si fa il callo: «Come ci si può abituare al dolore dell’umanità?».
Un pensiero, doveroso, va ai colleghi dell’Unhcr: «Il nostro è un lavoro di squadra e i riconoscimenti che mi vengono dati io li ricevo a nome di tutta la squadra, che lavora con passione e abnegazione». Oggi l’Europa ha una grande responsabilità: «Per anni ho seguito le situazioni di emergenza in molti Paesi del mondo, dall’Irak alla Georgia. Adesso, l’emergenza è arrivata da noi, nel Mediterraneo.
Come Unhcr ora siamo molto più operativi in Italia: il nostro Paese è diventato il cancello d’Europa». Con una precisazione: «I numeri parlano chiaro: i rifugiati da noi sono ancora pochi, 47 mila, contro i 600 mila della Germania, 300 mila in Gran Bretagna, 150 mila in Francia. l’80% dei rifugiati vive nel Sud del mondo, non in Europa».
Gli sbarchi via mare sono al centro dell’attenzione dei media, ma costituiscono solo una minima parte del flusso migratorio verso il nostro continente. E un rammarico che le lascia l’amaro in bocca: non essere riuscita a far capire chi è il rifugiato.
«Nell’immaginario collettivo tutti gli stranieri finiscono nel calderone della clandestinità. Molta gente non immagina neppure che in Africa avere in mano un passaporto è un privilegio. Non riesce a mettersi nei panni di uomini e donne costretti ad abbandonare il loro Paese per fuggire la guerra, la morte. Chi chiede asilo spesso spera di ritornare un giorno a casa sua». Continua: «Uno dei compiti del nostro ufficio di Roma è sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Ma è dura: negli ultimi anni la sensibilità degli italiani è molto cambiata».
La politica dei respingimenti adottata dal Governo mette a repentaglio il diritto di asilo. Per quanto riguarda la percezione dello straniero, in questi anni i mezzi di comunicazione non hanno aiutato.
«Quando si parla di migranti, l’Italia ritratta dai mezzi di comunicazione è soprattutto quella che ha paura, che guarda allo straniero con diffidenza. Eppure c’è un altra Italia: quella più silenziosa e meno visibile, che è andata avanti da sola, che prosegue la tradizione di accoglienza e solidarietà radicata nello spirito del Paese». È l’Italia degli insegnanti che realizzano progetti educativi nelle scuole, dei medici che si dedicano all’impegno umanitario, delle famiglie che danno una mano al volontariato. L’Italia del capitano Salvatore Cancemi, che ha ricevuto dall’Unhcr il Premio Per Mare (“Al coraggio di chi salva vite umane”) 2009: a novembre del 2008, con l’equipaggio del suo motopeschereccio di Mazara del Vallo e l’aiuto della Guardia costiera, trasse in salvo 300 migranti nel mare in burrasca al largo di Lampedusa. È l’Italia delle due famiglie di Palermo che hanno adottato Titti, 22enne eritrea, una dei 5 superstiti di un barcone di 80 persone lasciate alla deriva per tre settimane nel Canale di Sicilia, la scorsa estate. «L’unico antidoto alla paura è la conoscenza reciproca. Solo così si abbattono le barriere. Il mondo non è più lontano, ormai è qui, in casa nostra. Non possiamo perdere quest’opportunità».
Tutti indietro. Sayed ha vent’anni. A undici è dovuto scappare dall’Afghanistan, lasciando la madre e la propria casa, per fuggire a chi lo voleva costringere a combattere con i talebani. È arrivato in Italia dopo nove anni di viaggio, tra stenti e periodi di prigionia, trattato in modo disumano. Quella di Sayed è solo una delle tante storie raccolte da Laura Boldrini nella sua lunga esperienza in prima linea. Cosa spinge migliaia di persone a cercare di raggiungere le coste italiane sfidando ogni pericolo?