Il tema della creazione di moneta in cambio di debito pubblico è talmente delicato ed esplosivo da non essere quasi mai al centro delle discussioni, nemmeno tra gli economisti, nemmeno dopo questa crisi. Eppure esso è stato da sempre al centro dell’attenzione delle principali religioni: il popolo d’Israele ogni sette anni doveva rimettere tutti i debiti ai propri connazionali (non ai gentili), l’Islam ancora oggi vieta il prestito ad interesse e qualcuno dice che tale proibizione ha salvato il sistema finanziario dei paesi arabi, il magistero cattolico ha sempre tuonato contro l’usura e nel 1931 con PIO XI, persino contro l’internazionalismo bancario.
Lo stesso Marx, che ancora non poteva mettere a fuoco la finanziarizzazione dell’economia così come la conosciamo oggi, ne IL CAPITALE, LIBRO I, SEZIONE VII, CAPITOLO 24, diceva:
“Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico. Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. (…) il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna. Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi l’accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all’otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un’altra volta al pubblico in forma di banconote. Con queste banconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci e acquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d’Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all’ultimo centesimo che aveva dato. A poco a poco essa divenne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centro di gravitazione di tutto il credito commerciale. In Inghilterra, proprio mentre si smetteva di bruciare le streghe, si cominciò a impiccare i falsificatori di banconote. (…) C’è forse qualcosa di più pazzesco dell’esempio offertoci dalla Banca d’Inghilterra? Mentre le sue banconote hanno credito unicamente per il fatto di essere garantite dallo Stato, essa si fa pagare dallo Stato e quindi dal pubblico, nella forma degli interessi sui prestiti, per il potere che lo Stato le conferisce di convertire questi stessi biglietti di carta in denaro e darli poi in prestito allo Stato!”
Lo Statuto della Banca Centrale all’articolo 3 specifica le tipologie giuridiche dei soggetti che possono detenere quote del capitale sociale. Prima della revisione del 12 dicembre 2006, lo stesso articolo indicava che il pacchetto di controllo deve essere detenuto da soggetti pubblici. La Legge 28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) prevedeva all’articolo 19, comma 10: “Con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, è ridefinito l’assetto proprietario della Banca d’Italia, e sono disciplinate le modalità di trasferimento, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici.” Tale norma non è mai stata applicata, per cui la BdI è proprietà delle banche che a loro volta sono tutte di capitale privato.
Ho fatto le elementari negli anni ’60 e ad ottobre per la giornata del risparmio la maestra ci distribuiva una agendina realizzata dalla Cassa di risparmio. In essa si diceva che con il nostro piccolo risparmio avremmo contribuito al benessere dell’Italia, poiché grazie alla banca il nostro denaro avrebbe finanziato lo sviluppo economico del paese. A distanza di anni mi chiedo: quanta parte del nostro risparmio va effettivamente alle imprese? E soprattutto: perché le banche dovrebbero prestare il denaro alle imprese, quando vi sono impieghi ben più remunerativi? Il vero e grande (forse il più grande) potere delle banche è quello di creare moneta. Le banche non sono istituzioni al servizio dello sviluppo economico, ma sono società private il cui scopo è massimizzare il profitto dei propri azionisti. Una frazione infinitesima dei loro profitti torna allo Stato. Le banche centrali non sono dirette dallo Stato, così come la BCE non è diretta dall’Unione Europea. I soci di Banca d’Italia sono varie banche, assicurazioni, fondi, casse di risparmio, tutti privati (eccetto l’INPS). La cassa della Banca d’Italia per lo stato italiano è intoccabile, è proprietà di privati. BCE è controllata dalle varie banche centrali d’Europa, tutto sempre in mano privata, non statale. La retorica sull’indipendenza delle Banche centrali serve per legittimare l’espropriazione della sovranità monetaria che spetterebbe invece al popolo.
Un dato: circa l’85%, del denaro esistente e circolante al mondo, non è denaro vero, emesso da Banche Centrali, ma denaro creditizio, ossia aperture di credito e disponibilità di spesa create dal nulla dalle banche commerciali, le quali, attraverso questa creazione continua di nuovo denaro creditizio, si impossessano di quote crescenti del potere d’acquisto complessivo della popolazione mondiale. Come dice Marco della Luna “L’inizio di ogni possibile cammino di risanamento finanziario e di rilancio economico si trova nella presa di coscienza del fatto che, oggi, il denaro, tutta la liquidità, è creata attraverso operazioni di indebitamento:
– dello stato verso gli acquirenti, perlopiù banche, dei titoli del debito pubblico emessi e ceduti contro denaro contante, il quale costituisce circa l’8% del money supply;
– dei clienti verso il sistema bancario nelle varie operazioni di finanziamento, per il restante 92% del money supply.
Precisamente, il money supply oggi si compone di:
– uno 0,16% circa costituito dal conio, ossia dalle monete metalliche, emesse dallo Stato al costo industriale;
– un 8% circa costituito dalle banconote, emesse a costo quasi nullo dalle banche centrali, e da esse venduto alle altre banche e allo Stato a un prezzo pari al valore nominale (con un guadagno prossimo quindi al 100%);
– un restante 90% circa costituito da promesse di pagamento di moneta legale emesse dalle banche sotto varie forme: assegni circolari, lettere di credito, fidejussioni, certificati di deposito, etc.
– emesse a costo pressoché nullo perché coperte non da oro o da valuta legale, ma dai depositi e dalle promesse di pagamento (con garanzie) preliminarmente apportati dai clienti delle banche stesse.”
“Tutta la liquidità esistente, tutti i mezzi di pagamento, nascono attraverso un’operazione di indebitamento di chi originariamente li riceve, verso il sistema bancario: il denaro legale viene emesso in cambio di titoli del debito pubblico gravati da interesse; il denaro scritturale bancario viene emesso sotto forma di prestito, pure gravato di interesse. Ciò comporta che il totale del debito (capitale + interesse) risultante dalla emissione di tutta questa liquidità sia sempre, e sempre di più, superiore alla liquidità stessa. Si chiama ‘legge del debito infinito’. La progressione della crescita del debito totale, attraverso la periodica capitalizzazione degli interessi maturati, è esponenziale. L’emissione della moneta, l’ampliamento e la riduzione della liquidità a disposizione dell’economia e della società, sono atti di alta politica economica, implicanti l’esercizio della sovranità politica nelle sue varie componenti, quindi devono essere riservati a chi rappresenta il popolo sovrano.”
La finanziarizzazione dell’economia non è né un incidente, né soltanto un problema morale dei manager della finanza:
– gli Stati non hanno il controllo della moneta e per poter costruire infrastrutture e sostenere l’economia, devono indebitarsi con le banche trovandosi costretti a smontare lo Stato sociale;
– le banche e le banche centrali sono imprese private, orientate al massimo profitto; il loro profitto sta nel finanziamento del debito pubblico e nella creazione dal nulla di valore finanziario virtuale;
– tale valore finanziario virtuale tende a superare enormemente il capitale reale, quello prodotto dalle forze produttive del paese e pertanto non ha copertura reale, basandosi su un mero meccanismo di fiducia verso gli Stati;
– appena questa fiducia accenna ad incrinarsi, gli Stati si trovano costretti a farsi garanti presso i cittadini dei debiti creati dalle banche, indebitandosi ulteriormente con queste ultime e scaricandone le conseguenze sulle generazioni future. Stiamo parlando esattamente di ciò che è successo nell’ottobre scorso, ma che era già stato anticipato dallo scoppio di altre bolle speculative dal 1987 in poi.
Mettiamo in fila i ragionamenti:
1. “La gestione finanziaria della BCE è tenuta distinta da quella della Comunità europea. La Banca dispone di un bilancio proprio e il suo capitale è sottoscritto e versato dalle BCN dell’area dell’euro”: significa che la BCE non risponde del proprio operato all’autorità politica dell’UE.
2. Il capitale della Banca d’Italia è detenuto per quote proporzionali da tutte le banche italiane (statuto BdI).
3. Le banche italiane sono tutte di capitale privato. Le banche italiane, come quasi tutte quelle europee, sono controllate dai grandi gruppi privati multinazionali.
4. Il grado di internazionalizzazione ha fatto sì che sia divenuto impossibile conoscere la specifica influenza di ciascuno di questi “big” dentro ciascuna banca europea, soprattutto a causa dell’intreccio transnazionale e del corto circuito tra impresa che controlla la banca e banca che controlla l’impresa. Il gioco delle partecipazioni incrociate a livello mondiale consente tuttavia ad un numero limitato di operatori di controllare la finanza globale.
Il potere reale cioè quello di determinare le scelte fondamentali dell’economia di un paese, è quindi detenuto dalla ristretta cerchia dei grandi operatori finanziari globali, mentre le autorità politiche, sia nazionali che europee (per non parlare dei piccoli stati del terzo mondo) sono sostanzialmente relegate al ruolo di soccorritori delle banche quando la finanza è in crisi e di spettatori impotenti quando si deve decidere dove e come investire i capitali.
Tale impotenza viene ideologicamente giustificata dalla teoria del mercato come mano invisibile. Da questo punto di vista ritorna utile la metodologia marxista di analisi del capitale e di analisi degli interessi e conflitti tra i dominanti. Marx ci ricorda che i processi avvengono a prescindere dalle intenzionalità individuali, poiché sono prodotti dall’estrinsecazione di una logica che è interna al capitale stesso, che è poi la legge del massimo profitto. E che tale logica si realizza al meglio là dove al capitale è consentita la massima libertà di circolazione ed il minimo di interferenza da parte di qualsivoglia autorità politica. Poiché tuttavia gli Stati sono una realtà (pur nella loro natura di finzione), il capitale, per potersi muovere liberamente, deve appoggiarsi sulla loro forza. Che è poi la forza delle armi, in grado di mettere a tacere le residue opposizioni poste alla sua libertà. Quando anche fossero liquefatti tutti gli Stati nazionali, fino a quando esiste anche soltanto un remoto rischio di opposizione alla libertà del capitale, è necessaria l’assistenza di un gendarme internazionale. Sappiamo che dal dopoguerra in poi tale funzione è stata svolta dagli USA in continua frizione con l’opposizione del blocco sovietico. Venendo a mancare quest’ultimo, la funzione imperialistica degli USA ha potuto esplicarsi compiutamente, costringendo con la forza delle armi gli altri paesi a mettere in piedi sistemi politici debolissimi (finzioni) ed un sistema finanziario totalmente aperto alle manovre del capitale globale. Da questo punto di vista anche l’unificazione europea – che in teoria poteva porre seri problemi alla libertà del capitale – è stata gestita in modo da garantire l’assoluta permeabilità delle sue istituzioni finanziarie alle strategie del capitale globale, in un quadro di sudditanza militare agli USA tale da impedirne in prospettiva qualsiasi tentazione di agire in proprio. Altro che mano invisibile! Basta osservare la forza di condizionamento che ha sui governi di mezzo mondo una banca come la Goldman Sachs, per rendersi conto che questo gioco si regge sul conflitto di interessi e sulle strategie dei grandi gruppi finanziari. Così si capisce perché nonostante al G20 tutti i capi di Stato si siano dimostrati concordi nella necessità di regolare i mercati finanziari, nessun accordo concreto sia ancora stato trovato. Il problema sta infatti nella capacità di immaginare nuovi scenari, trovare il sassolino capace di inceppare un meccanismo che autonomamente non si riformerà mai. Il bello di questa crisi è che ha definitivamente spazzato via l’idea della mano invisibile ed ha messo in risalto il ruolo degli Stati e della politica nel delineare un nuovo modello di sviluppo sostenibile. Detto questo però i nostri governanti sono ancora a metà del guado: dopo aver salvato le banche incrementando il debito pubblico ed aver erogato qualche sussidio di disoccupazione, ora sono in attesa di una riforma che nessuno ha il coraggio di attuare.
Manca il coraggio (o meglio l’interesse) di intervenire sul meccanismo monetario, quello per cui ad una banca è consentito di lucrare moltiplicando per 20 o per 30 il valore dei nostri risparmi, quello per cui l’emissione della linfa vitale dell’economia, cioè la moneta, avviene soltanto mediante indebitamento pubblico, quando potrebbe essere creata gratuitamente dagli Stati sovrani. Immaginiamo le conseguenze che potrebbe avere una decisione tutta politica da parte degli Stati europei verso:
– la sottomissione della BCE alle direttive politiche dell’UE e quindi,
– il superamento del diritto di signoraggio bancario riconoscendo alle istituzioni politiche rappresentative dell’UE il potere esclusivo di stampare moneta, di governare la massa monetaria e di porre limiti alle banche alla creazione di moneta scritturale;
– la possibilità per le istituzioni politiche europee di emettere moneta senza corrispettivo di debito pubblico;
– l’obbligo per le banche di impiegare tutti i risparmi raccolti verso le imprese e famiglie europee;
– il divieto per le banche di entrare nel capitale azionario delle imprese ed il divieto per le imprese di entrare nel capitale delle banche;
– ostacolare il gigantismo bancario, favorendo le piccole banche partecipate dagli enti locali e dalle organizzazioni no profit.
Si tratta di interventi che teoricamente sono alla portata della politica e coerenti con i valori democratici sviluppati dal nostro continente. Nel concreto rappresentano una utopia. E’ infatti evidente che stiamo parlando di riforme strutturali che mettono in discussione il potere dei grandi gruppi finanziari, rispetto ai quali i ceti politici europei sono spesso sudditi quando non addirittura complici. La speranza è che si crei una forte mobilitazione sociale e politica da parte di chi ha un concreto interesse a modificare questo stato di cose:
• i risparmiatori, che cercano investimenti sicuri e sanno di non potersi più fidare di questo sistema finanziario;
• le piccole e medie imprese, che cercano credito a tassi sostenibili e trovano le banche con le porte chiuse;
• i lavoratori e le imprese, oppressi dalla crescente pressione fiscale necessaria a pagare gli interessi del debito pubblico;
• i disoccupati che hanno perso il posto di lavoro a causa di questa crisi e che non intendono pagarne da soli le conseguenze;
• i cittadini che subiscono i tagli di uno Stato sociale oppresso dall’indebitamento pubblico”. Romano Calvo