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Acqua malata

acqua rubinetto


Continuano a essere pochi in Italia i casi in cui si è investito sui corsi d’acqua con interventi di riqualificazione, rinaturalizzazione, prevenzione e mitigazione del rischio e insieme di tutela degli ecosistemi. I fiumi italiani, ma anche le falde e i laghi, continuano ad essere considerati troppo spesso solo come un pericolo o una minaccia per il rischio connesso con la loro esondazione o un ricettacolo di scarichi non depurati, industriali, sversamenti accidentali, se non una risorsa da sfruttare il più possibile per altri usi accumulando derivazioni, prelievi di acqua o di ghiaia, interventi di regimazione o cementificazione degli alvei.

L’Europa ci chiama con forza e da tempo, a partire dall’approvazione della direttiva 2000/60, ad avere corsi d’acqua in buono stato. Il 22 dicembre 2015 scade il termine per il raggiungimento degli obiettivi ambientali previsti dalla direttiva, (Water Framework Directive), per la protezione delle acque superficiali interne, di transizione e di quelle costiere e sotterranee, che assicuri la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, agevoli l’utilizzo idrico sostenibile, protegga l’ambiente, migliori le condizioni degli ecosistemi acquatici e mitighi gli effetti delle inondazioni e della siccità.

Nel 2009 erano il 42% i corpi idrici superficiali europei che godevano di un buono o elevato stato ecologico, nel 2015 si prevede che lo stato auspicato verrà raggiunto solo dal 52% di essi. In Italia, secondo un recente dossier di Legambiente, la situazione non sembra migliore. La relazione sull’attuazione della WFD presentata nel 2012 dalla Commissione europea ha rilevato che non si conosce lo stato ecologico del 56% e lo stato chimico del 78% delle acque superficiali; i corpi idrici che ricadono nelle classi “elevato” e “buono” per lo stato ecologico sono complessivamente il 25%, mentre per lo stato chimico sono in classe buono il 18% delle acque superficiali monitorate. Anche per le acque italiane le prospettive di aumento delle percentuali per il 2015 sono purtroppo minime. Questi dati del 2009 sono gli unici a cui riferirsi per avere un quadro completo, coerente e certificato. Inoltre solamente l’8,3% dei corpi idrici superficiali italiani è riuscito a soddisfare contemporaneamente i requisiti per ottenere un buono stato ecologico e chimico. Questa percentuale dovrebbe avere un incremento dell’1,8% arrivando così a 10,1 nel 2015.

Oltre l’analisi dei corsi d’acqua e dello stato qualitativo nel suo complesso un altro aspetto che è importante monitorare è lo sversamento puntuale di sostanze inquinanti. Nel nostro Paese, sottolinea Legambiente, nel 2011 sono state emesse oltre 140 tonnellate di metalli pesanti direttamente nei corpi idrici e quasi 2,8 milioni di tonnellate di sostanze inorganiche (Cloruri Fluoruri e Cianuri) di cui quasi la metà derivanti da attività di tipo chimico. Tra le sostanze organiche ritenute pericolose in via prioritaria rientrano l’antracene, il benzene, gli IPA (idrocarburi policiclici aromatici): tra queste sono state immesse 2,9 tonnellate di nonilfenoli cioè il 60% circa dell’emissione europea totale per questa sostanza, 1,25 tonnellate di IPA (pari al 39% della quantità totale dichiarata a livello europeo per il 2011) e 0,91 tonnellate di benzene legate quasi esclusivamente al settore della produzione e trasformazione dei metalli.

L’acqua è un bene comune fondamentale per la vita, da preservare nella qualità oltre che nella quantità, e di cui dobbiamo assumerci tutti la responsabilità diventando parte attiva di un’auspicata politica di gestione e tutela delle risorse idriche nel nostro Paese, per un’acqua pubblica e accessibile a tutti. Il Lazio con l’approvazione della nuova legge di iniziativa popolare in Consiglio Regionale è la prima regione d’Italia che sancisce in maniera inequivocabile che l’acqua è un bene pubblico inalienabile la cui gestione deve essere ri-pubblicizzata.

Una nuova politica di tutela delle risorse idriche può rappresentare un’opportunità anche in termini economici. Un recente studio dell’istituto di ricerche Ambiente Italia ha  stimato che a fronte di un investimento ipotizzato nel settore idrico di 27 miliardi di euro nei prossimi 10 anni si potrebbero creare oltre 45.000 posti di lavoro. Rimane il nodo su come reperire le risorse su cui si potrebbe, fin da subito:

  1. applicare il principio chi inquina paga: un principio generale, assunto dalla legislazione comunitaria come riferimento-guida con il duplice obiettivo di rendere non vantaggiosi gli inquinamenti evitabili, e di recuperare risorse per le azioni di risanamento;
  2. definire una tariffazione progressiva del servizio idrico che tenga conto delle condizioni economiche e sociali degli utenti, scoraggi i grandi consumi e preveda l’attuazione del full cost recovery e il principio “chi inquina paga”;
  3. prevedere opportune tasse di scopo (questo proposito un importante opportunità deriva dai canoni di concessione stabiliti dalle regione per i diversi usi della risorsa idrica in Italia, imbottigliamento, agricolo o industriale);
  4. sfruttare la grande opportunità dei Fondi strutturali europei, che dovrebbero vedere nelle politiche di tutela delle risorse idriche e di applicazione degli obiettivi delle direttive europee acque (2000/60) e alluvioni (2007/60) una delle loro finalità principali.
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Claudio Rossi

“Ci sono uomini nel mondo che governano con l’inganno. Non si rendono conto della propria confusione mentale. Appena i loro sudditi se ne accorgono, gli inganni non funzionano più.”

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